Allegri vs Adani: tutta la verità e il grande paradosso del ciclo Juve
Allegri vs Adani: tutta la verità e il grande paradosso del ciclo Juve

Allegri vs Adani: tutta la verità e il grande paradosso del ciclo Juve

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Lo scontro verbale tra Massimiliano Allegri e Daniele Adani non si spiega solo con l’eterna dicotomia tra forma e sostanza o tra “giochismo” e “risultatismo”. Sullo sfondo ci sono problematiche generate anche da questo incredibile ciclo, e che la Juventus dovrà decidersi ad affrontare.

Allegri vs Adani: l’antefatto e la trama

Come molti di voi sapranno, quello tra il tecnico della Juventus e l’opinionista di Sky Sports non è il primo scontro. Già lo scorso anno, dopo il vituperato Inter-Juventus 2-3 (quello dell’espulsione di Vecino, la mancata espulsione di Pjanic eccetera) i due si ritrovarono in una situazione analoga e Allegri partì con il paragone tra calcio e basket. Era un paragone improprio, certo, come giustamente sottolineò lo stesso Adani subito dopo che Max andò via, ma questo non è il cuore del problema.

Max, la livornesità e la tattica (che c’è)

Allegri è un livornese con tutto – ma proprio tutto – il corredo labronico, stracolmo di pregi e difetti che molto spesso si confondono tra loro. Ad esempio quell’esprimersi sempre come se fosse a prendere un “ponce dar Civili” (chi è del posto capirà), ma anche la ricerca insistita della battuta, possibilmente grassa. Questa risulta simpatica quando contribuisce ad alleggerire una atmosfera troppo seriosa o stereotipata, un po’ meno quando serve ad “acciughina” per divincolarsi da argomenti che non gli garbano.

Tra questi c’è sicuramente ciò che lui chiama “l’eccesso di teoria” nel calcio, ma in realtà si regge su una semplificazione altrettanto eccessiva. Di certo c’è una cosa: identificare Allegri come un tecnico poco preparato per questa sua allergia ai discorsi tecnici significa autoetichettarsi come ubriachi. Come lo stesso Max ha ribadito anche nel post-partita dell’ultimo Inter-Juventus, secondo lui ai giovani andrebbe insegnata la tecnica e la tattica individuale. Una sfumatura che i più non hanno colto, perché si tende a considerare la tattica solo come schematismi collettivi da applicare. Invece, se da un lato è vero che la fase di possesso palla e di finalizzazione delle squadre di Allegri sono incentrate su iniziative e movimenti personali dei giocatori, ciò non significa anarchia. Infatti il termine utilizzato dal tecnico bianconero per criticare i suoi è “scelte di passaggio”. E la tattica individuale serve proprio a quello: ad effettuare scelte sempre migliori in base alle situazioni.

Adani: profondità, schiettezza e un vizietto…

Dall’altro lato c’è Lele Adani, un ex giocatore riciclatosi in maniera egregia come voce di commento in coppia con Riccardo Trevisani, e poi anche singolarmente nei vari dopo-partita. Adani si è costruito questo personaggio  di analista schietto che cerca di andare nel profondo delle cose, ma ciò riesce decisamente meglio quando commenta in studio con i colleghi, decisamente peggio quando si trova a fare domande a caldo ai protagonisti. Questo perché la schiettezza è un pregio ma non a prescindere, soprattutto se ci si lascia un po’ prendere la mano.

Sabato Adani ha ritenuto di interpretare il sentimento di molti sportivi, juventini compresi, riguardo alla qualità estetica del calcio della Juventus di Allegri. Un intento lodevole e in buona parte condivisibile, se non fosse per alcuni particolari.

La provocazione

Mentre Allegri si stava producendo nella sua analisi della partita appena conclusa, Adani ha ritenuto di cambiare argomento chiedendo conto della pessima prestazione contro l’Ajax. Ecco la sua domanda, “sbobinata” per voi:

Allora io te lo chiedo, poi vedi te come interpretarlo. Quanto un allenatore come te, che ha vinto tanto, che conosce bene i suoi giocatori, che li ha spostati, li ha girati li ha alternati, può incidere, al di là delle scelte di mercato, arriverà Ramsey credo di sì, quindi sarà un giocatore di qualità in più, per quel discorso tecnico di cui parlavi anche adesso. Quanto un allenatore come te può incidere nel rapporto tecnica-qualità-smarcamento, arrivare di più – parlo della Champions League – nell’area avversaria, essere più dominante, quanto ne ha bisogno la squadra se ne ha bisogno, se pensi che ne abbia bisogno, e quanto tu puoi orientare questa caratteristica di dominio del gioco?

Letta così sembra una sorta di “supercazzola”, ma bisogna considerare fattori come la difficoltà nell’articolare un pensiero in diretta e farlo rapidamente. Lo scontro vero e proprio accade quando, mentre Allegri cerca di rispondere in qualche modo, Adani lo accusa di “non dire cose serie e sensate”. Una mancanza di rispetto, senza dubbio, alla quale Allegri risponde in maniera estremamente sguaiata e velenosa. Da un punto di vista dialettico si può dire che entrambi abbiano commesso un errore. C’è però un ultimo aspetto, che va considerato: quello dell’opportunità, o della provocazione.

Porre quel tipo di domanda al tecnico più dichiaratamente pragmatico che abbiamo oggi in Italia equivale a stuzzicarlo, a volerne provocare una reazione. Un po’ come andare dal macellaio a chiedere perché non si converte al salame vegano, per poi risentirsi se costui ti manda a quel famoso paese dove non batte mai il sole.

Con un po’ di fantasia, potremmo immaginare Max Allegri al posto di Marc Overmars…

Forma vs sostanza

Si tratta di una ennesima riproposizione della classica dicotomia tra forma e sostanza, con annessi partiti e tifoserie dell’una e dell’altra parte. Chi predilige la prima, in genere sostiene che la forma sia anche sostanza. Al contrario, chi preferisce la sostanza non considera altre realtà possibili.

Un altro aspetto è quello relativo alla conoscenza e alla condivisione della stessa. Adani ha costruito la sua ottima reputazione di voce tecnica anche per la generosità, con cui condivide alcuni dettagli tecnici delle partite che commenta, in tempo reale, con il pubblico. Allegri è invece uno di quei tecnici che non amano condividere scelte e spiegazioni troppo in profondità, vuoi per naturale ritrosia vuoi perché certi concetti li possiede e basta e non vuole condividerli in pubblico. In questo senso, pretendere una spiegazione dettagliata da uno che è pagato per fare al massimo l’intervista di rito, è il modo migliore per farselo nemico.

Gioco per tutti i tifosi juventini

Ora che siamo nell’argomento, credo vada chiarito una volta per tutte un malinteso che riguarda la Juventus e una parte della sua tifoseria. Non sono pochi, infatti, gli juventini che vorrebbero vedere la loro squadra giocare un calcio più gradevole. Chi scrive non nega di essere tra questi, anche se la bellezza fine a sé stessa non mi ha mai affascinato. Tuttavia invito ogni juventino, giovane o anziano che sia, a fare un giochino.

Quante partite ricordate in cui la Juve ha giocato bene perdendo? E quante volte invece avete visto i bianconeri vincere anche giocando maluccio? Nel primo caso i ricordi saranno talmente pochi che può darsi rammentiate anche data, risultato esatto e marcatori. Le volte in cui la Juve l’ha “sfangata” invece sono molte, molte di più. Ora chiedetevi anche “perché?” Provo a dare qualche risposta.

La Juve, il “risultatismo” nel DNA e l’ombra di Conte

La Juve è sempre stata una squadra di sostanza, al punto che ha anche abituato i suoi tifosi a vedere sì grandi campioni, ma raramente un gioco di squadra spumeggiante, men che meno che puntasse ad esserlo. Il tifoso juventino è “addestrato” a chiedere vittorie e a non avere eccessive pretese estetiche. Più precisamente, non avere pretese che vadano al di là della contemplazione dei singoli campioni che ne vestono la casacca. Anche per questo lo juventino, nonostante il “tradimento” a favore della nazionale e un sostanziale nulla di fatto in Europa, è rimasto legatissimo ad Antonio Conte.

Antonio Conte (Getty Images)

La Juve di Conte aveva un’identità ben precisa, che abbinava la fame di vittorie (indispensabile corredo genetico per i bianconeri) ad aggressività, dinamismo, verticalizzazioni e tecnica. Questi ultimi due elementi si dovevano in buona parte alla regia illuminata di un artista del pallone come Pirlo, giunto a Torino a consumare il dolce e lento crepuscolo di una carriera inimitabile.

La Juve di Allegri è partita da quella di Conte, modificandone via via l’intelaiatura fino a stravolgerne la precedente identità. Pirlo non è stato mai realmente sostituito, in primo luogo perché è impossibile farlo, in secondo luogo perché quello del regista è oggi un profilo raro come un Gronchi Rosa.

Allegri e l’involuzione recente

In tutto questo si inserisce il pragmatismo di Allegri, quello che si vanta di “aver vinto uno scudetto con tre mediani”. Il calcio di Allegri è grande organizzazione difensiva abbinata a una sorta di “verso libero” davanti. La qualità la danno gli uomini e quella a centrocampo, oggi, dovrebbe essere garantita da Pjanic. Il bosniaco però non ha mai convinto del tutto, pur avendo dato vita a ottime prestazioni da mediano che non è. Pjanic dà il meglio 20 metri più avanti e, per liberarlo un po’, la Juventus ha persino rinnegato se stessa andandosi a riprendere il figliuol prodigo Bonucci, dopo il burrascoso addio con approdo al Milan. Leo è molto abile nell’impostazione e ci ha costruito una intera carriera, supplendo a una certa sufficienza che ogni tanto lo accompagna nella fase difensiva. Il “Bonucci-bis”, tuttavia, non può purtroppo dirsi una ciambella col buco. Considerando solo il campionato, su 24 reti incassate dalla Juventus almeno 8 si devono a errori proprio di Leo.

Il saldo tra i “+” del contributo alla manovra di Bonucci e i suoi “-” delle amnesie difensive è negativo (Getty Images)

Dall’altra parte c’era Dybala che stentava a trovare una collocazione davanti insieme a Ronaldo, così Allegri ha pensato per lui a un ruolo di tuttocampista che l’argentino ha faticato molto a digerire. A dire il vero, nel ritorno contro l’Ajax Paulo stava finalmente interpretando bene il ruolo, infatti nel primo tempo De Jong non aveva praticamente superato la metà campo, per tenere a bada il 21 bianconero. Poi Dybalino si è fatto male, eccetera eccetera.

La saturazione da scudetti e la Borsa

Ecco, torniamo a tifosi e società bianconera. Da una parte è vero che vincere è la migliore medicina per lavare via tutto. Ma questo fantastico ciclo, per quanto straordinario e difficilmente replicabile, ha finito per creare un inedito malinteso di fondo. Vincere la stessa cosa per 8 anni crea una sorta di saturazione, un bisogno quasi fisico di qualcos’altro, qualcosa in più. Questo qualcosa in più ha due materializzazioni possibili: vincere la Champions League oppure offrire un calcio più gradevole (o entrambe le cose, perché no?). In questi anni, a sue spese, la Juve dovrebbe aver capito che per la prima ci vuole anche una buona dose di fortuna, mentre la seconda è solo una questione di voglia, programmazione e lavoro.

Il quadro delineato sembrerebbe poter mettere d’accordo tutti, ma c’è un altro elemento che scombina tale possibile nuovo equilibrio: le esigenze della società. Il famigerato “Vincere non è importante, è l’unica cosa che conta” sopravvive ancora, eccome. Se è vero che la Juve è sempre stata una società improntata al “risultatismo” ancora di più lo è diventata dopo l’ingresso in Borsa, e un ulteriore level up è arrivato con i pesanti investimenti della scorsa estate. Il messaggio che parrebbe arrivare da tutto questo è: vietato smettere di vincere. Certo, ma se per vincere si intende anche “solo” il nono scudetto consecutivo, il divario con le altre appare oggi talmente ampio che si può pensare di osare qualcosa in più.

E per fare questo non c’è bisogno di guardare all’Ajax e al suo modello troppo agli antipodi, per venire adottato o recepito. Basta forse la lezione del Tottenham di Pochettino. Il tecnico argentino è in semifinale di Champions praticamente con la stessa squadra dello scorso anno, valorizzando al massimo le caratteristiche della rosa.

Mauricio Pochettino, uno che ha mantenuto la squadra dello scorso anno ed è in semifinale di Champions (Getty Images)

Allegri allenatore ideale per la Juve, finora. E domani?

Prendiamo atto che Allegri è stato finora l’allenatore perfetto per la Juve, poiché incarna il culto della sostanza come la società che gli paga lo stipendio e che gli ha sempre chiesto una sola cosa: risultati. Lui li ha portati e questo non può venire banalizzato, poiché gestire rose composte da tanti campioni non è mai cosa semplice. Il problema è semmai che finora sia accaduto solo in patria, anche se le famose due finali di Champions inducono a un po’ di fiducia. In questo senso la dorata monotonia degli scudetti viene intesa come una sorta di prigione, quando invece è una gigantesca opportunità.

Se la Juve pensa che Allegri possa continuare a vincere facendo questo passettino in più come identità, qualità e imprevedibilità (magari insistendo sulla trasformazione di Dybala e quella di Emre Can in jolly per due-tre posizioni differenti), allora vada avanti con lui. Altrimenti cambiare, in una Serie A economicamente depressa come quella attuale, non potrà mai essere sacrificio così costoso.

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