Il tormentone più lungo e sorprendente che la storia della Juventus ricordi si è concluso dopo quasi un mese esatto. Un mese vissuto pericolosamente, non tanto per i tifosi che sono più che altro vittime, quanto per addetti ai lavori, media e alcune testate che si sono esposti molto, mettendo a rischio carriere e reputazioni.
La conclusione è la migliore possibile, e questo non lo scrivo oggi perché voglio salire sul carro dei vincitori. Già il mese scorso, quando scrissi l’articolo sulle possibili opzioni per la successione di Allegri, definivo Sarri “il profilo più raggiungibile, se la società volesse davvero una svolta sul piano del gioco. E lui avrebbe finalmente un organico per lottare su tutti i fronti, senza alibi”.
L’errore bianconero: il coraggio sminuito e quella fretta nel divorzio
La svolta c’è stata, dunque. Probabilmente non conosceremo mai il reale momento di rottura tra Allegri e la società, né quanto sia stata realistica la prospettiva di arrivare a Pep Guardiola. Si possono fare supposizioni, ma è proprio qui che si nasconde l’errore della dirigenza bianconera. Probabilmente l’unico, certo grave. Non parlo dell’aver creato (o lasciato che si creasse e montasse) una tale suspense, ma di una conseguenza innegabile: la parziale dispersione di quanto di buono e nuovo è stato fatto. Uno di quei casi in cui si opera una scelta di rottura che non ha precedenti, ma la strada che si sceglie per metterla in atto e il modo in cui viene percepita non le rende affatto giustizia.
E poi stiamo tutti a parlare di questa lunghissima e inusuale attesa, ma essa nasce da quell’addio così anticipato a Max Allegri. Annunciare il divorzio in quel momento ha rappresentato qualcosa di totalmente irrituale, senza precedenti nella storia della Juventus. Da lì è disceso tutto il resto.
Il fantasma di Pep e le aspettative drogate
Mentre la società faceva il suo legittimo lavoro “ai fianchi”, si lasciava campo libero a ogni tipo di speculazione da parte della stampa e non solo (leggi l’oscillazione del titolo Juve in borsa), con la conseguenza di creare hype e – a strascico – aspettative insensatamente elevate. Così, la scelta più controcorrente e coraggiosa degli ultimi 30 anni bianconeri rischia di passare per qualcosa di rabberciato, come un “piano B” nemmeno ben architettato.
Che ci sia stata o meno una trattativa reale con il tecnico del Manchester City, l’aver spacciato urbi et orbi il nome di Pep ha fatto generare migliaia di click ai siti sportivi e fatto vendere migliaia di copie ai giornali, ma ha tolto charme a una scelta che non può non definirsi forte.
“The Decision” non è roba per noi
Il tipo di sceneggiatura in cui è maturato l’annuncio della scelta del nuovo allenatore non solo non ha precedenti nella storia della Juventus, ma non rientra nella tradizione sportiva italiana. Plot di questo genere siamo abituati a vederli negli USA, come ad esempio in occasione del celebre annuncio di LeBron James quando passò dai Cleveland Cavs ai Miami Heat. “The Decision” fu un vero e proprio show televisivo, con tanto di spazi pubblicitari venduti a peso d’oro e settimane di chiacchiericcio su tv, radio e internet a precedere. Questo tipo di prodotti va bene per il mercato americano, in cui il pubblico è felicemente funzionale e organico al business.
Fenomenologia (e ipocrisia) del tifoso medio
In Italia invece abbiamo subculture e tradizioni radicate, che ci rendono tifosi perennemente insoddisfatti quasi per contratto: un giorno il carobiglietti, un altro lo strapotere delle tv, poi i complotti del palazzo, quindi il presidente che non spende e così via.
Viviamo di opposizioni ideali ma spesso del tutto disancorate dalla realtà. Che il calcio odierno sia criticabile in molti aspetti è fuori da ogni discussione, ma la problematica non si risolve certo continuando a vagheggiare il calcio romantico di una volta come il paradiso perduto. Il calcio di una volta è come il mondo di una volta: non c’è più e rimpiangerlo è solo un modo per provare – invano – a difendersi dal tirannico passare del tempo. Ma poi li vorrei davvero vedere, quelli che rimpiangono i tempi in cui si giocava tutti alle 14:30 di domenica e si aspettava fino alle 18:20 per vedere i primi servizi filmati delle partite. Sono spesso gli stessi che, alla prima giornata senza calcio italiano, riguardano l’ennesima replica in tv o corrono a scommettere sulla Serie B polacca.
Abbiamo bisogno di crearci dei nemici immaginari, di addossare a qualcun altro le colpe della nostra infelicità, dimenticandoci che nel frattempo il mondo è andato avanti. Siamo nel 2019, il Muro di Berlino è caduto 30 anni fa e ancora oggi Maurizio Sarri non dovrebbe potere allenare la Juventus o Antonio Conte l’Inter, per supposte ragioni ideologiche? Fatevi vedere, ma da uno bravo bravo.
E poi sullo sfondo c’è sempre lei: la nostra involuta e immarcescibile italianità.
L’attualità di Churchill
Come è noto, Sir Winston Churchill ebbe a dire che “gli italiani perdono le guerre come se fossero partite di calcio, e le partite di calcio come se fossero guerre”. A ben vedere la battuta funzionerebbe ancora oggi, anche se non siamo più in guerra ma basta sostituirla con la politica, o con la dialettica politica. In Italia oggi si vive la politica come tifoseria da calcio, e dall’altra parte si prende il calcio sempre troppo seriamente, attribuendo ad esso categorie della politica. Il lascito più triste di un siffatto stato di cose è che il pubblico (non solo quello sportivo, ça va sans dire) è spaventosamente fragile, influenzabile, manovrabile. In questo senso il caso-Sarri è davvero emblematico.
Il caso-Sarri e la meritocrazia affogata nel “gentismo”
Per le mani abbiamo qualcosa di straordinario. Abbiamo una società che rinnega se stessa e il suo storico “risultatismo” per andare finalmente oltre. Abbiamo un sessantenne che ha fatto una gavetta INFINITA e si è guadagnato, passo dopo passo, la chance di fare ciò che sa fare al più alto livello possibile. Cosa è questa, se non una esemplare storia di meritocrazia? Proprio quella meritocrazia che vagheggiamo tutti ogni giorno, indignandoci perché il nostro paese è preda di corrotti e raccomandati.
Dovremmo essere quindi tutti contenti se un uomo a cui nessuno ha regalato nulla, che poco meno di sette anni fa veniva esonerato dal Sorrento, oggi è arrivato ad allenare la squadra più titolata d’Italia e tra le più forti in Europa. E invece cosa facciamo? Da una parte c’è chi parla di “tradimento di un popolo” (sic), di rivoluzionario imborghesito, di ideali sconfessati, di “ominicchio” abbagliato dai soldi, in una repentina trasformazione da comandante a uomo di merda. Dall’altra si fa spallucce sul buzzurro, sulla tuta, sul dito medio e sull’immancabile omofobia. Siamo sempre gli stessi, quelli che ci indicano una luna promettente e spettacolare ma preferiamo ostinarci a guardare il dito con le unghie sporche.
La Juve ci riprova, a 29 anni dalla “scottatura” Maifredi
Chi segue la Juve da moltissimi anni e non ha perso la memoria sa che la società non ha quasi mai deviato dai binari del pragmatismo. Lo aveva fatto solo una volta, in pieno “Sacchismo”, chiamando a Torino un allenatore che aveva portato il Bologna all’ottavo posto in Serie A con il cosiddetto “calcio-champagne”. Ma andò tutto male, anzi malissimo, e la Vecchia Signora ne rimase scottata.
Ma non bisogna dimenticare che era tutta un’altra Juve, che aveva chiuso il glorioso ciclo di Trapattoni e Platini stentando a ripartire. Soprattutto, con tutto il rispetto per Gigi Maifredi ma non può in alcun modo venire paragonato a Maurizio Sarri, per quanto quest’ultimo ha dimostrato negli ultimi 5-6 anni.
Sarri e Juve: la rivoluzione è la sfida
Da parte sua Sarri arriva a Torino con due consapevolezze: è stato chiamato per la qualità delle sue idee, ma adesso è lui che deve dimostrare a se stesso di fare ancora qualche passettino avanti. Per esempio nel trovare equilibri e formule ideali per coniugare tali idee con l’ampio organico a disposizione, per dire addio a una certa tendenza a trovare alibi e per migliorare sotto il profilo della gestione di un gruppo di altissimo livello, che è poi l’unica incognita di questa nuova sfida.
Dove gli ottenebrati vedono tradimenti di ideali, nemici, ladri e cartonati, i grandi uomini di sport (atleti o allenatori che siano) vedono solo nuove sfide. E così sia.
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