Un Salary Cap in Serie A come sarebbe? Il calcio che vuole ripartire si interroga sul futuro
Un Salary Cap in Serie A come sarebbe? Il calcio che vuole ripartire si interroga sul futuro

Un Salary Cap in Serie A come sarebbe? Il calcio che vuole ripartire si interroga sul futuro

Il calcio si lecca le ferite e si prepara a ripartire. Un periodo duro come quello che stiamo vivendo potrebbe tuttavia diventare una importante opportunità di cambiamento. Per esempio il nostro campionato potrebbe approfittarne per alcune riforme strutturali, fondamentali alla sua sopravvivenza. E poi ci sono proposte suggestive, come quella di un Salary Cap in Serie A, che meritano un’analisi a parte.

Due mesi senza calcio

Due mesi senza calcio, solitamente, siamo abituati a viverli d’estate. Stavolta potrebbe davvero essere il contrario. Dai primi di marzo siamo in astinenza forzata dall’amato pallone, per via di ragioni molto più importanti di un seppur popolarissimo sport. Tuttavia ci sono buoni segnali che tutto possa riprendere, pur senza farsi eccessive illusioni. A questo punto, con il danno economico che la lunga inattività ha già causato, non basterà pensare di ripartire per concludere il campionato e arrivare a un vincente della Serie A: è lecito interrogarsi sul futuro del sistema-calcio. Potrà reggere ancora lo status quo? Il settore si fonda su equilibri molto labili e presenta “leak” notevoli soprattutto sul piano del calciomercato e della valutazione dei calciatori. Pertanto le domande che ci si pone in questi giorni sono: che calcio ritroveremo? Che ne sarà del calciomercato come lo abbiamo visto finora? E non sarebbe forse il caso di introdurre un salary cap nel calcio, in stile NBA?

Ok, forse si riparte: ma che calcio ritroveremo?

Al momento non sappiamo con certezza quando riprenderanno la stagione 2019/20 della Serie A e di altri campionati primari come la Premier League inglese e la Liga spagnola. In Germania sono invece prossimi alla ripresa, sia per quanto riguarda la Bundesliga che la 2 Bundesliga. Possiamo però dare per certa una cosa: il calcio non sarà mai più lo stesso. Le ragioni sono quasi tutte di ordine economico. In questi ultimi tempi ogni settore dell’economia e della società si interroga sul proprio futuro, su come si riuscirà a sopravvivere alla crisi, qualcuno anche su come riuscire a trasformarla in un’occasione. Probabilmente anche per il mondo del calcio l’attuale pandemia globale potrà essere un’occasione, ma ne parleremo più avanti. Prima bisogna fare un passo indietro.

Un Allianz Stadium deserto fa da cornice a Juventus-Inter, uno degli ultimi match giocati in Serie A prima dello stop (Getty Images )

Fair Play Finanziario e plusvalenze, due terremoti che possono sconvolgere il calcio

Uno degli ultimi atti ufficiali della UEFA quando ancora la stagione era in piena attività aveva scatenato un bel terremoto. Non solo la squalifica del Manchester City per violazione del Fair Play Finanziario, ma anche l’annuncio di una stretta su alcuni argomenti scottanti come le plusvalenze. Da tempo la compravendita dei giocatori viene utilizzata in maniera disinvolta – e qualche volta borderline – per aggiustare i bilanci, e tale pratica è diffusa particolarmente in Italia.

La questione stadi

Tolte Juve, Udinese, Sassuolo e Atalanta nessun’altra società di calcio ha uno stadio di proprietà. Ciò implica una maggiore difficoltà nel generare profitti da attività di marketing. Questo e altri fattori contribuiscono ad avere una Serie A che si appoggia tanto – troppo – a diritti tv e compravendita dei giocatori. Va comunque rimarcato che l’abitudine di esagerare con le plusvalenze riguarda anche le 4 società già citate e la Juve, nonostante la ricerca verso il consolidamento di una caratura da top team europeo, non fa eccezione. Tutto ciò, nelle intenzioni della UEFA, dovrebbe presto finire o quantomeno venire limitato in maniera sensibile. Il messaggio è che chi non si adegua rischia grosso, sia in ambito economico che nella ovvia ricaduta sulla competitività sportiva.

Lionel Messi: anche il suo Barcellona è tra le società che hanno tagliato gli stipendi ai calciatori (Getty Images)

Come se non bastasse, in questi mesi di stop forzato le società hanno dovuto fronteggiare enormi difficoltà economiche, soprattutto nel pagamento degli stipendi. Molte hanno raggiunto accordi con dipendenti e collaboratori per un taglio degli emolumenti, ma questo può essere soltanto un palliativo. Il sistema ha diverse crepe e ciò non è un segreto. Le ha sia a livello nazionale (un sistema che non riesce ad essere autosufficiente e che permette troppe scappatoie) che internazionale (il Fair Play Finanziario è un’arma in teoria eccellente ma usata con diversi pesi e diverse misure). Nel calcio di oggi esiste una enorme sperequazione. In Italia il fenomeno è macroscopico, ma anche in Europa è quasi impossibile emergere senza determinati fatturati alle spalle. L’Atalanta di quest’anno sembra potere rappresentare una felicissima eccezione, ma quante volte capiterà di avere un’Atalanta a scombussolare lo status quo di questo calcio? Quasi mai.

Salary Cap NBA, ecco come funziona

Ci sono altri esempi di campionati professionistici in cui i soldi sono distribuiti in maniera molto più equilibrata. Viene in mente la NBA, anche se il sistema statunitense è troppo diverso per venire preso a modello. Tuttavia è un dato di fatto che nella lega professionistica americana di basket qualunque tifoso può sperare di vincere un anello NBA. D’accordo, esiste anche il tifoso dei New York Knicks, ma lì siamo su livelli di autolesionismo molto importanti (parlo del management, non certo dei fans). Ironia a parte, se c’è qualcosa da prendere a modello dal mondo NBA è che tutti remano più o meno dalla stessa parte. Il sistema è una vera e propria macchina da soldi che ogni anno presenta numeri in crescita. Per capirci, a fronte della crescita degli introiti, negli ultimi anni il salary cap della NBA è stato rivisto al rialzo e i giocatori guadagnano molto di più rispetto a qualche anno fa. Questa si chiama sostenibilità. Ma vediamo di capire meglio come funziona il Salary Cap in NBA, oggi.

Quello della NBA è definito un “soft cap”, ovvero permette delle eccezioni ma che costano care. Sforare di oltre il 21% sul Salary cap stabilito comporta il pagamento della cosiddetta Luxury Tax. Questa tassa (che parte da 1,50 dollari per ogni dollaro sforato e può arrivare anche a oltre 5 dollari per dollaro per le società recidive) viene versata alla NBA che ne distribuisce circa la metà tra le società “virtuose”, ovvero quelle che rispettano i limiti tetto salariale. Preservare l’equilibrio e la competitività della Lega significa scoraggiare chi spende troppo, ma impedire anche che si spenda troppo poco. Esiste infatti il cosiddetto “Salary floor”, ovvero il minimo che ogni franchigia NBA deve spendere in stipendi per i suoi tesserati. Tale  limite è stabilito nel 90% del Salary Cap. Per la stagione in corso il salary cap è stato fissato 109,14 milioni di dollari, la Luxury Tax scatta sopra ai 132 milioni, il Salary Floor è invece a circa 98 milioni di dollari.

Stephen Curry, quest’anno il giocatore più pagato in NBA con 40 milioni di dollari (Getty Images)

Possibile un Salary cap in Serie A?

La curiosità intorno alla possibile adozione di un salary cap in Serie A è molto alta. Ma il basket professionistico americano e il calcio italiano sono realtà estremamente distanti tra loro e cercheremo di entrare nel dettaglio dei motivi per cui le cose stanno così.

Vivai e università

Potremmo mai avere un salary cap nel calcio italiano e/o europeo? Se ne parla da anni ma ne mancano i presupposti, culturali prima che economici. La NBA si innesta in un sistema molto diverso dal nostro, a partire dalle università come veicolo di formazione e reclutamento dei giovani. Da noi invece lo sport e l’istruzione non hanno nulla che ricordi questo legame forte, e ogni società ha i settori giovanili e ulteriori società satelliti per allevare le giovani promesse. Anche il mercato NBA è molto diverso dal nostro calciomercato, essendo basato su scambi e scelte del draft (il sistema a sorteggio per selezionare i migliori talenti che escono dall’università), molto meno su transazioni in denaro.

L’idea di “una chance per tutti” intriga

Le differenze di sistema sono però molte altre. Naturalmente anche in NBA ci sono le squadre più prestigiose o vincenti e altre che vincono molto meno, ma ciò non è mai dovuto a una maggiore disponibilità economica, bensì all’abilità dei giocatori che scendono in campo e a quella manageriale nell’ingaggiarli e assemblarli. Pensando alla Serie A e al monte ingaggi della Juventus, che è quasi 12 volte più alto di quello del Verona, sembra proprio un altro mondo. E lo è. Può mai una riforma come quella del Salary Cap trovare terreno fertile nel calcio?

Il mercato e la possibile “bolla”

Servirà trovare i compromessi giusti, per una competizione che sia il più possibile aperta. Non sarà semplice inventarsi una sostenibilità economica dall’oggi al domani, soprattutto è impossibile pensare a un calciomercato che si regga sugli stessi equilibri che abbiamo visto finora. Anche in NBA c’è un abisso tra i giocatori più pagati e quelli meno pagati (dai 40 milioni di Steph Curry ai nemmeno 200mila dollari di Jontay Porter), ma pesi e contrappesi del sistema danno una chance a tutti. Nel calcio italiano, invece, gli stipendi sono una voce sempre più pesante in un sistema il cui indebitamento cresce più velocemente rispetto ai ricavi. Il vero problema è quello, pur se finora mascherato con plusvalenze e ammortamenti che hanno reso presentabili bilanci altrimenti fallimentari. Se, anche in conseguenza dell’attenzione annunciata dalla UEFA sul caso, dovesse scoppiare la bolla delle plusvalenze, in Italia il calcio rischierebbe di scoppiare. Serve dunque un ridimensionamento, oppure un netto salto di qualità sotto il profilo gestionale e manageriale. Delle due, almeno una.

Un momento di Carpi-Sassuolo, nella Serie A 2015/16. Un match del genere in NBA non sarebbe mai possibile… (Getty Images)

La “spietatezza” della NBA

La differenza più spietata tra realtà come la NBA e il calcio italiano/europeo è legata a un altro fattore, più “geografico”. Da noi le società hanno un legame con il territorio molto diverso. Ciò implica, per esempio, che realtà molto piccole possono coltivare il sogno di arrivare alla Serie A. In NBA non solo questo non è possibile, ma a volte le franchigie stesse si trasferiscono da una città a un’altra per ragioni esclusivamente di business. I famosi Los Angeles Lakers erano in origine Minneapolis Lakers, e le franchigie trasferite sono state diverse anche negli ultimi lustri. Ciò accade sempre per spietate analisi di mercato. Ad esempio Portland e Memphis sono da anni tra i mercati meno appetibili sotto il profilo del merchandising o della bassa affluenza, ma finora Trailblazers e Grizzlies sono rimasti al loro posto. Qualora un trasloco fosse deciso, anche a migliaia di chilometri di distanza, i tifosi si dovrebbero semplicemente rassegnare. La NBA funziona così, prendere o lasciare.

Lotito e il “caso Carpi-Frosinone”

Pensare a un discorso simile nel calcio è follia pura, anzi la situazione è se possibile opposta. Si pensi al caso di Claudio Lotito e delle infelici frasi pronunciate qualche anno fa a proposito di Carpi e Frosinone che non dovrebbero poter stare in Serie A. Si tratta infatti di due squadre espressione di piccole città, con bacini di utenza in proporzione, che però si erano guadagnate sul campo la promozione nella massima serie. Finché esisteranno promozioni e retrocessioni sarà sempre così e ciò rappresenta anche un elemento di fascino del calcio, dove la piccola realtà può proporsi come eccezione tra i giganti.

Se la Serie A ragionasse come la NBA, il campionato non potrebbe fare a meno di realtà come Palermo e Bari, solo per menzionare due grossi centri ad oggi esclusi dal calcio che conta per via di retrocessioni o fallimenti vari. Un campionato con tutte le più grandi e popolate città a partecipare sarebbe l’optimum, da un punto di vista del marketing. Ma voi riuscite a immaginare la proprietà del Sassuolo che decide di trasferire la squadra – che ne so – a Catania?

Salary cap? Sì, ma il modello è la Premier

Oggi le prime 5 società per fatturato contribuiscono a circa il 60% dei ricavi del campionato, mentre le ultime 5 contribuiscono soltanto per il 7%. Questo dato esprime molto bene gli squilibri del nostro calcio. Ecco perché un Salary Cap in Serie A potrebbe rivelarsi utile ma non sufficiente, a meno che il nostro campionato non riesca a diventare grande. In questo senso l’esempio da seguire, più che il basket americano, è il calcio inglese. La FA gestisce il prodotto in maniera manageriale, valorizzandolo e vendendolo come meglio non si potrebbe. Le società ne beneficiano, ma partecipano anche in maniera attiva a produrre utili. Un sistema quasi ideale, per come rimane comunque ancorato al territorio.

L’imperativo categorico è riuscire a produrre utili, in modo da decomprimere un sistema ad oggi troppo legato agli utili dei diritti tv e a pratiche borderline come quella delle plusvalenze. Un tetto agli stipendi è uno strumento che può rivelarsi utile in questo senso. Stadi moderni e di proprietà sono un altro tassello che andrebbe aggiunto. Risanato l’ambiente da sprechi e infrastrutture fatiscenti, poi, una società di Serie A diventerebbe molto più appetibile per potenziali investitori, italiani o stranieri. E la Premier League, allora, potrebbe non essere più così lontana.

Un salary cap in Serie A sarebbe dunque possibile? La risposta è sì. Basterebbe a risolvere i problemi del nostro calcio? La risposta è no.

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