Dal 1991 non esiste formalmente più, ma le tracce dell’Unione Sovietica sono ancora oggi ben presenti anche nei ricordi e negli annali calcistici. Il calcio sovietico ha prodotto infatti autentici miti, oltre che campioni. Esistono molti calciatori russi meritevoli di essere raccontati, ma oggi abbiamo scelto 5 storie che dovete assolutamente conoscere.
I 5 calciatori russi che dovete assolutamente conoscere
Eduard Streltsov
Alla fine degli anni ’50 Pelè era già Pelè, ma nella nazionale con su scritto “CCCP” c’era un attaccante che veniva soprannominato “il Pelè bianco”. L’accostamento potrebbe non essere azzardato, ma l’amara verità è che non potremo mai saperlo con certezza. Il destino di Eduard Streltsov – e forse anche della nazionale sovietica – cambia per sempre il 26 maggio del 1958, quando viene arrestato con un’accusa terribile: stupro.
La sera prima, Edik aveva lasciato il ritiro di preparazione al mondiale per andare a una festa insieme a due compagni. Qui, secondo l’accusa, avrebbe abusato di una 19enne, Marina Lebedeva. La condanna è tremenda, 12 anni, poi ridotti a 7 ma trascorsi in un Gulag a lavorare in miniera. Non si è mai saputo con certezza quale fosse la verità, ma in molti sono convinti che quella fosse una ripicca delle alte sfere sovietiche contro un giovane troppo anarchico e “pericoloso”, che aveva deciso di rimanere alla Torpedo Mosca rifiutando le avance di CSKA (squadra dell’esercito) e Dinamo (polizia, poi KGB).
Scontata la pena, Edik torna a giocare nella sua Torpedo. Sempre un campione, ma alla soglia dei 28 anni non puoi mai avere l’esplosività che avevi a 21. Vince subito la Vysshaya Liga, come si chiamava il campionato sovietico (oggi si chiama così il campionato bielorusso) e si riguadagna un po’ di gloria in patria, tornando anche in nazionale. Vince anche due “palloni d’oro sovietici” consecutivi, nel 1967 e ’68, come se il sistema che lo aveva sbrigativamente condannato volesse in qualche modo farsi perdonare. Ma ormai era tardi. Qualche anno dopo il ritiro scopre di avere un tumore alla gola, probabilmente contratto durante il periodo del lavoro in miniera nel Gulag. Muore nel 1990 a 53 anni ancora da compiere. Oggi lo stadio della Torpedo Mosca porta il suo nome.
Lev Yashin
Molti credono che lo avrebbero meritato anche altre leggende come Dino Zoff, Gordon Banks, Ricardo Zamora e Gigi Buffon, ma rimane il fatto che c’è solo un portiere, nella storia, capace di vincere il Pallone d’Oro. Quel portiere è Lev Yashin. E pensare che tutto sarebbe potuto anche non accadere perché il giovane Lev, figlio di operai e che a sua volta aveva iniziato a lavorare in fabbrica dove si metteva in mostra “parando” i bulloni lanciati dai suoi colleghi, venne inizialmente scartato dalla divisione calcio della Dinamo Mosca. Non che fosse ritenuto scarso, ma il titolare era l’inamovibile “tigre” Chomic. Un infortunio di quest’ultimo, quando Yashin era da qualche tempo portiere della squadra di Hockey su ghiaccio, gli spalanca le porte di una carriera che sarebbe durata molti anni, portandogli allori e gloria ma non soldi, come si potrebbe pensare se fosse accaduto oggi. Nel socialismo reale della vecchia URSS, anche nella fase apicale della sua carriera, Yashin guadagnava quanto un insegnante di educazione fisica.
Con la Dinamo vince molto anche se solo in casa, ma è con la nazionale che il “ragno nero” entra nel mito. Oro olimpico nel 1956 e Campionato Europeo nel 1960, unito ad altri piazzamenti prestigiosi. Il Pallone d’Oro arriva nel 1963, dopo essere arrivato nei primi 5 in altre 3 edizioni, compresa la prima (vinta da Matthews). Si ritira nel 1971 a 41 anni compiuti, ma il suo nome è destinato a rimanere nell’Olimpo dei calciatori russi di ogni epoca.
Oleg Blokhin
Se Streitsov era forse il miglior talento puro mai apparso su un campo di calcio sovietico, Oleg Blokhin rappresenta invece pressoché alla perfezione l’atleta modello del “sistema”. Eroe della Dinamo Kiev del colonello Lobanowski, Blokhin era un’ala sinistra con un sinistro micidiale e una incredibile propensione al gol. A tutto questo si aggiunga una velocità eccezionale ed ecco il prototipo del calciatore ideale per il modello sovietico.
Figlio di una campionessa ucraina dei 400 metri piani, Blokhin aveva già una velocità di base notevole, che Oleg ha poi allenato incessantemente, anche con l’ausilio di velocisti professionisti come Valeri Borzov. Il risultato era quello di un calciatore capace di correre i 100 metri piani in 11 secondi scarsi.
La velocità era il grimaldello di un attaccante che aveva dalla sua anche tecnica e potenza. Il suo anno di grazia fu il 1975 con campionato, titolo di capocannoniere, Coppa delle Coppe e una Supercoppa Europea, quest’ultima vinta praticamente da solo contro il Bayern Monaco di Franz Beckenbauer, con un gol all’andata e doppietta al ritorno. Ovviamente, a fine 1975 arrivò per lui anche il Pallone d’Oro. Il terzo a riuscirci, tra i calciatori russi, dopo Yashin e prima di Belanov.
Dopo la fine della carriera Blochin è diventato allenatore, guidando la nazionale ucraina al suo migliore risultato di sempre: i quarti di finale al mondiale 2006, eliminato dall’Italia di Lippi poi campione del mondo. In seguito Blokhin si è anche buttato in politica.
Proprio il gol segnato all’andata della Supercoppa contro i bavaresi rappresenta la sintesi migliore di cosa fosse questo meraviglioso giocatore. Eccolo.
Aleksandr Mostovoi
Se Yashin è la leggenda, Streitsov il talento ribelle e Blochin la perfezione, Mostovoi rappresenta un’altra caratteristica dei calciatori russi: l’indolenza. A cavallo tra la fine dello scorso millennio e l’inizio di quello attuale, Aleksandr Mostovoi ha calcato i palcoscenici del calcio internazionale lasciando tuttavia un’impronta molto inferiore a quella che avrebbe potuto essere.
Non che la sua carriera sia stata così brutta o insignificante. Mostovoi ha collezionato 65 presenze (con 15 gol) tra le varie nazionali che hanno contraddistinto il blocco sovietico in quei turbolenti anni, anzi è uno dei pochissimi ad averle indossate tutte: Unione Sovietica, CSI e Russia.
Un centrocampista/trequartista con tocco vellutato ed entrambi i piedi abili avrebbe potuto fare la fortuna sua e di qualsiasi squadra lo avesse ingaggiato. Invece Aleksandr si è limitato a diventare idolo per una piazza calda ma marginale come quella galiziana del Celta Vigo. Nel suo palmarés una Coppa Intertoto vinta con il Celta e poco/zero altro. Tra le alte potenzialità e un esito così arido sul campo ci sono due elementi: un carattere non proprio facile e la scarsa “fame”.
Il primo è stato un autentico disastro, per gli esiti della sua carriera. Con quasi tutti gli allenatori che ha avuto, tra club e nazionale, è arrivato presto o tardi ai ferri corti, a causa di uno filtro fra cervello e bocca non tra i più stagni. La seconda è forse anch’essa elemento caratteriale, che però rappresenta una sorta di difetto ricorrente in molti talenti russi, o comunque nati nei paesi del blocco sovietico che hanno giocato a cavallo degli anni in cui l’impero si sgretolava. Da Dobrovolski a Shalimov, da Mikhaijlichenko ad Arshavin, la lista dei calciatori russi dal talento pigro e indolente è corposa. Mostovoi ne è un po’ il capobranco.
Rinat Dasaev
Tecnicamente, si è soliti datare la dissoluzione dell’Unione Sovietica al dicembre del 1991. Nel calcio, però, se ne era avuto un antipasto più di 3 anni prima. Esattamente, il 25 giugno 1988. All’Olympiastadion di Monaco di Baviera si incontrano Olanda e URSS nella finale del Campionato Europeo. Portiere e capitano dell’Unione Sovietica è il 31enne Rinat Dasaev. Nonostante la perestrojka sia già avviata e la scomparsa del vecchio impero socialista sia solo questione di tempo, o forse proprio per questo, l’occasione è enorme: tornare a vincere un titolo europeo dopo 28 anni. Per Dasaev, uno dei pochissimi titolari non appartenente alla Dinamo Kiev del colonnello Lobanovsky, l’occasione è duplice: guidare la sua nazionale a vincere ancora ed emulare la leggenda Yashin tra i migliori calciatori russi di sempre.
L’Olanda delle tre stelle milaniste è però fortissima e va già in vantaggio nel primo tempo, proprio con uno di questi: Ruud Gullit. All’intervallo il Colonnello e i suoi cercano di riordinare le idee per raddrizzare il match, ma al 54′ accade qualcosa destinato a marcare la storia. Non un semplice gol ma qualcosa di iconico, quasi simbolico: la parabola inventata da Marco Van Basten supera Rinat Dasaev dissolvendone definitivamente i sogni. La partita finisce di fatto lì, segnando la fine anticipata dell’Unione Sovietica sotto il profilo calcistico, una sorta di spoiler di ciò che sarebbe poi accaduto poco più di 3 anni dopo.
Dasaev accusa il colpo, anche se a 31 anni la vita sportiva di un portiere ha ancora tanto da dire. Evidentemente bisognoso di cambiare aria, lascia il suo club storico per approdare in Spagna, al Siviglia. Lì però le cose non vanno come previsto. Due anni da incubo, il posto da titolare perso, la depressione e la vodka che diventava una pericolosa compagna di strada. Proprio la vodka è causa di un incidente stradale in cui rimane infortunato a una mano. Il Siviglia si infuria e vuole cederlo, ma lui rifiuta. Così, dopo 3 anni tremendi decide di chiuderla lì, ritirandosi a soli 34 anni. Ma il peggio deve ancora venire.
Torna a Mosca che nel frattempo è diversissima da come l’aveva lasciata, altro alcol e altro incidente d’auto, che stavolta lo manda in rianimazione. La moglie chiede il divorzio e lui torna in Spagna per provare ad avviare un negozio di articoli sportivi. Ma va male anche quello e il naufragio è completo. Per 10 anni se ne perdono le tracce, poi viene scovato in Andalusia da un vecchio compagno dello Spartak. Per tutto quel tempo aveva fatto il vagabondo. Lo riporta in patria e, piano piano, prova a reinserirlo nella società. Oggi Rinat Dasaev ha 63 anni, pur dimostrandone qualcuno in più, e fa l’allenatore a livello giovanile.